BORGMAN – Beetlejuice

BORGMAN

“C’è qualcosa che ci circonda…
Qualcosa che è esterno a noi,
che a volte ci penetra.
Una specie di calore…
un calore piacevole che intossica…
e che ci confonde.
Come un involucro che annuncia il male”

Erano almeno quattro giorni che pensavo se fosse il caso di scrivere questa recensione. La domanda che mi teneva fermo ai blocchi di partenza era in sostanza “Cosa posso scrivere di un film di cui non ho capito un dannato accidente?”. Poi oggi mi sono seduto, mi sono calmato, ho razionalizzato, ho chiamato un po’ di persone che mi vogliono bene e mi fanno sentire speciale (e non un disadattato che non capisce i film che guarda) e ho trasformato il mio quesito in un pensiero più costruttivo tipo “Sei troppo duro con te stesso. Qualcosa l’hai capita, il resto probabilmente non voleva farsi capire”.

Ci sono film in cui il numero di domande che possono nascere e di possibili interpretazioni che possono essere date supera quello delle possibili idee che uno spettatore si può fare guardandoli. E ci sono anche registi per i quali questo tipo di cinema è il linguaggio standard. C’è stato un tempo, in passato, in cui questi registi mi facevano solo incazzare e di conseguenza rifiutavo qualsiasi pellicola che non avesse una sceneggiatura chiara e cristallina, perfetta come un cronometro, dove entro i titoli di coda ogni cosa andava al suo posto. Poi ho capito che un film non deve essere sempre un giallo di Hitchcock, che il cinema non deve necessariamente mostrare e spiegare tutto, anzi, come ogni opera d’arte dovrebbe prima di tutto suggestionare e mettere lo spettatore in una posizione scomoda, che è la migliore per riflettere. Borgman, in questo senso, possiede entrambe le anime. E’ un film che in fondo, se si trascurano tutti i dettagli, può essere tranquillamente visto come un semplice thriller e invece, concentrandosi su questi dettagli, diventa un’opera misteriosa, allegorica e in grado di suscitare un’infinità di domande.

Borgman | Recensione film | Screenshot 01

Qualcuno ha detto che un film si riconosce dai suoi primi dieci minuti. Non so se sia vero in generale, sicuramente vale per Borgman, che apre con una frase sibillina: “E scesero sulla terra per rafforzare il proprio essere”. Un’apparente citazione biblica che invece è pura invenzione del regista e sceneggiatore Alex van Warmerdam. E le prime scene, in cui un manipolo di red-neck capitanati dal prete del villaggio si armano di fucili per andare a caccia del Borgman del titolo, che se ne sta nascosto nel bosco in un’enorme buca sottoterra e li vede arrivare grazie a un periscopio, mettono subito in chiaro che le cose normali in questa storia troveranno pochissimo spazio. Questo è sicuramente uno dei lati più interessanti del film, il suo sorprendere continuamente con scene, personaggi e dialoghi che uno non si aspetta. Forse c’è qualcosa qua e là che potrebbe anche ricordare i Coen, ma in generale la messa in scena di Alex van Warmerdam è molto personale.

Borgman | Recensione film | Screenshot 04

È il protagonista Borgman in primo luogo a essere bellissimo e particolarissimo e Jan Bijvoet che lo interpreta sarebbe da applausi anche solo per il suo incredibile physique du role. Prima con quella sua aria da clochard bisognoso e perseguitato e poi nei nuovi panni di figura oscura in grado di pilotare nell’ombra le sorti della famiglia e di chiunque interferisca col piano. Già, perché c’è un piano, e la cosa appare sempre più chiara dal comportamento sospetto di Borgman e dai segnali che piano piano arrivano sotto forme sempre più enigmatiche e surreali. Borgman inizialmente si muove nell’abitazione in modo invisibile, quasi fosse un fantasma, con una calma e una sicurezza che ci fanno sospettare che sia qualcosa di più di un semplice barbone accolto sotto un tetto e forse anche qualcosa in più di un semplice essere umano. E l’arrivo dei due levrieri in casa e il loro aggirarsi pacifico e silenzioso in perlustrazione aggiungono ulteriore mistero e magia, quasi fossimo in presenza di esseri extraterrestri. Ed è sovrannaturale anche il magnetismo che Borgman emana nei confronti della padrona di casa Marina (l’irresistibile Hadewych Minis) e progressivamente anche dei suoi figli, mentre il marito, come tutti i mariti da quando è stato inventato il matrimonio, rimane inconsapevole di tutto.

Borgman | Recensione film | Screenshot 08

Alla fine poi, se riusciamo a non farci infastidire dalle mille domande che si affollano nella nostra mente, tutto può tornare così com’è. La storia potrebbe essere semplicemente vista come l’elaborato piano di esseri semi-umani (angeli? extraterrestri? terrestri controllati da un’entità aliena?), che si nascondono tra noi sottoterra come agenti dormienti e che periodicamente reclutano i più giovani sbarazzandosi degli adulti. Una sorta di stravagante thriller fantascientifico che omaggia da lontano capolavori di genere come They live, Village of the Damned e Invasion of the Body Snatchers. Questa è più che altro teoria però, perché non credo che esista spettatore sulla Terra che riuscirebbe a vedere Borgman in modo così lineare. “Mi sono annoiato, ho voglia di giocare” dice misteriosamente Borgman mentre fugge dalla casa, ma Marina lo segue e gli chiede di restare. Ecco, questo è probabilmente il punto focale del film, quello che vi mette nella posizione scomoda e comincia a farvi frullare il cervello. Perché il disegno architettato da Borgman nei confronti della famiglia è questo, un gioco, una commedia, un’opera da teatro dell’assurdo in bilico tra il tragico e il comico, con omicidi efferati e bizzarri occultamenti di cadaveri, fiabe nere raccontate ai bambini e impianti sottocutanei, sogni indotti telepaticamente e veleni da tragedia shakesperiana.

Borgman | Recensione film | Screenshot 19

E allora le domande non le possiamo mica davvero ignorare così. Perché lui ha scelto quella casa? Perché prendersela proprio con chi lo ha accolto e non invece con chi gli ha rifiutato l’ospitalità? E’ Borgman a causare i sogni di Marina oppure li guarda semplicemente frugando nella sua mente? E i levrieri sono in realtà la forma animale di qualcos’altro? E perché la balia è cambiata dopo essere rimasta sola con Pascal? E perché il padre fa accompagnare i bambini a scuola dai giardinieri e la madre non fa nulla per fermarli? E cosa diavolo significa la rappresentazione teatrale in giardino e i cartelli con le scritte “Io sono – Noi siamo”? E le cicatrici nella schiena sono davvero degli impianti o abbiamo visto troppi film di fantascienza? Non credo ci sia una risposta univoca, una metafora definitiva che come la Teoria del Tutto unifichi le possibili soluzioni.

Borgman | Recensione film | Screenshot 18

L’interpretazione più facile è quella che viene anche citata esplicitamente nei dialoghi dei protagonisti, quando Marina ha una crisi e dice: “Noi stiamo bene, siamo fortunati. E quelli fortunati devono essere puniti”. Borgman e compari in questo senso sono la personificazione dei sensi di colpa e delle ansie della donna (e quindi di tutto l’Occidente), quel cocktail mortale che accompagna la nostra esistenza agiata, fatto di sensazione di colpevolezza e di paura di perdere i privilegi (la scritta “Io sono – Noi siamo” dello spettacolo in giardino sarebbe quindi una critica al pensiero individualistico occidentale). E allora non si salva nessuno, solo i ragazzi, perché forse sono gli unici a vivere ancora nell’innocenza. Un’altra interpretazione potrebbe essere più esistenzialista, una spiegazione in cui il disegno di Borgman è semplicemente la rappresentazione teatralizzata dell’eterno accadere delle cose, dove Borgman e compari sono gli amorali agenti del cambiamento, l’incarnazione del tempo che trasforma la nostra realtà, che fa morire la generazione precedente per dare spazio a quella successiva (in questo senso il prete che dà la caccia a Borgman potrebbe rappresentare la promessa di vita eterna da parte delle religioni). C’è poi una possibile interpretazione in cui il piano di Borgman simboleggia le ossessioni o le dipendenze in cui la nostra mente può rimanere intrappolata, se non addirittura la sua seduzione da parte del Male in persona, e che ci conducono inevitabilmente all’autodistruzione. Un disegno che ci porta a vedere in modo distorto ciò che ci circonda, anche chi ci sta vicino (il marito di Marina nei sogni), a perdere i nostri figli (trascurandoli e abbandonandoli nel momento del bisogno) e a bere da un calice da cui dovremmo stare lontani.

E di interpretazioni sicuramente ce ne sono altre mille, a occhio e croce anche più intelligenti e azzeccate delle mie, ma qui è girata così, abbiate pazienza. Non preoccupatevi troppo per me comunque, ora mi precipito anch’io a vedere cosa ci ha capito la gente seria.

Voto ok
Un thriller olandese con un protagonista bellissimo e una storia surreale dalle mille possibili interpretazioni.

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